> FocusUnimore > numero 10 – dicembre 2020

Nel complesso mondo della comunicazione, un mondo che oggi con l’irrompere delle nuove tecnologie digitali e l’affermazione dei social si è arricchito di nuovi strumenti e nuove opportunità di manifestazione del pensiero, hanno fatto la loro comparsa anche nuovi linguaggi: ad ogni strumento di comunicazione corrisponde, infatti, l’uso di un differente linguaggio che tiene necessariamente conto sia della finalità dello strumento impiegato per comunicare che del destinatario cui è indirizzata la comunicazione.

         La differenza non è più solo come un tempo tra comunicazione istituzionale, comunicazione sociale e comunicazione di una notizia, ma la differenza del linguaggio e del contenuto la fa lo strumento di comunicazione utilizzato.

         Questo accade anche nel mondo della traduzione, altro volto fondamentale della comunicazione, che in una società globalizzata ci relaziona col mondo, ci dà la possibilità di cogliere e comprendere quello che si muove oltre noi stessi, oltre i nostri confini, oltre il nostro angusto background culturale. 

          Avvicinandosi al mondo della traduzione si scopre che ogni atto traduttivo è un atto vincolato dal contesto in cui la traduzione avviene, dalla committenza e quindi dallo scopo per cui è fatta, dalle peculiarità del testo stesso, dalla sua struttura, dalla sua musicalità, dai giochi di parole, dalle immagini che a volte lo accompagnano, dalle allusioni o riferimenti intertestuali nascosti.

Quante volte ci è capitato di leggere un testo, un romanzo o una poesia scritta in una lingua diversa dalla nostra lingua madre? Leggere le opere di Ungaretti in inglese o quelle di Lord Byron in italiano trasmette la stessa emozione?

La domanda che ci poniamo è sempre: il traduttore/la traduttrice è rimasto/a fedele al testo, al significato generale che desiderava trasmettere lo scrittore/la scrittrice? E a che cosa avrebbe dovuto rimanere fedele? Al significato delle parole? Alla musicalità del testo? Al sentimento che quel testo ha forse suscitato nei suoi primi lettori? E la posizione delle parole, la loro ritmica, le connotazioni semantiche, le onomatopee, saranno state mantenute oppure sono andate perdute nella traduzione?

E se il traduttore aggiungesse anziché togliere?

Se la traduzione non facesse perdere, ma facesse guadagnare qualcosa al testo?

Sarebbe sempre una traduzione? Domande legittime per chi è mosso da curiosità e non si accontenta dei luoghi comuni come l’ormai classico “lost in translation” o il detto “le traduzioni possono essere o brutte e fedeli o belle e infedeli”.

Per cercare di capire meglio le diverse sfaccettature del mestiere del traduttore letterario, ci soccorre un esperto il Professor Franco Nasi, docente di Teorie della traduzione del Dipartimento di Studi Linguisti e Culturali (DSLC).

Una sorta di mantra dei recenti studi sulla traduzione afferma che ‘non si traduce parola con parola o frase con frase, ma testo con testo, e che non si traduce da una lingua a un’altra, ma da una cultura a un’altra’. Sembra una frase banale, ma in verità ribalta molti facili luoghi comuni. L’esperienza del tradurre, se fatta con partecipazione e consapevolezza, è un atto complesso che non solo richiede competenze di tipo strettamente linguistico, ma che costringe chi traduce a entrare in un rapporto profondo con l’altro. L’atto del tradurre richiede una disponibilità all’ascolto non pregiudicato dell’altro e di sé stessi, una disposizione all’accoglienza dell’alterità. Tradurre è ospitare nella propria cultura l’estraneo, senza privarlo della sua irriducibile differenza. Il traduttore credo debba cercare di rispettare l’altro, cioè il testo da tradurre, rispettando e arricchendo, con rigore e creatività, nello stesso tempo anche la cultura d’arrivo. Insomma, cammina sul filo, come un funambolo, rischiando sempre di cadere ad ogni scelta traduttiva”.

Il Prof. Nasi, assieme a studenti e studentesse del Laboratorio di Traduzione condotto con la Prof.ssa Laura Gavioli, ha recentemente tradotto in italiano, per l’editore Gallucci, un best seller che spopola in Inghilterra, “Oi frog” di Kes Gray e Jim Field, esilarante storia in rima che porta i lettori in erba a scoprire il posto riservato a ciascun animale.

Il gruppo di lavoro, in questo progetto di trasposizione dalla lingua inglese a quella italiana, ha adottato una forma di traduzione nuova, quella collaborativa, sperimentata proprio nel suo Laboratorio di Traduzione.

Nella versione italiana gli studenti, rispettando il vincolo delle illustrazioni presenti nel testo originale, sono riusciti a “far quadrare il cerchio” e a restituire un testo singolarmente vivo e divertente.

Nell’albo illustrato in inglese si vedevano ad esempio due pappagalli, uno grande e uno piccolo, seduti su un mucchio di carote, perché in inglese “Parrots sit on carrots”, così come un “Ape sits on grapes”, una scimmia siede sull’uva. Gli studenti hanno risolto con “Un pappagallo e suo nipote siedono sulle carote” e “uno Chimpanzè sull’uva Chardonnè”. Traduzioni forse infedeli sul piano del rigore formale, eppure fedelissime dal punto di vista della restituzione del significato delle espressioni.

La traduzione di testi letterari o di libri per bambini come quello che abbiamo affrontato con gli studenti del Laboratorio – continua il Prof. Nasi – non è un atto automatico. Va fatto mettendo in gioco sia le proprie competenze specifiche sia la propria capacità creativa. La traduzione, se fatta in modo non banale, è un fantastico laboratorio di pensiero critico e creativo”.

Sarebbe bello saper leggere tutti i libri del mondo in originale, ma questo tuffo nel mondo della traduzione ci ha permesso di capire che si può godere dei testi letterari anche grazie al lavoro attento e rigoroso dei traduttori e delle traduttrici, veri e propri coautori, senza forse perdere troppo.

L’esercizio di traduzione come forma di comunicazione collaborativa: il “Laboratorio di traduzione” del Dip. di Studi linguistici e culturali